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Dating : Il senza-solco

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Lapo Ceccherelli

Considerare. Con siderae. ‘Con le stelle’, in latino. In armonia con ciò che accade. Oggi non consideriamo più niente.

Io ho impiegato 33 anni per riconsiderare questa parola.

Quello che é accaduto nel mentre credo sia più o meno quello che succede a tutti. Un’infanzia spensierata che considerava tutto, un adolescenza incasinata che desiderava tutto, una presunta etá adulta che non considerava più niente e desiderava male. Ora mi spiego.

Ho speso i miei primi 33 anni a cercare un posto nel mondo. É normale, bisogna saper rispondere alla domanda “Ciao, che fai?”. Confondevo l’essere con il fare, direbbero.

Da bambino ragionavo, in realtà, su quanto fosse strano che uno ‘fosse’ un mestiere. Più naturale era ‘fare’ qualcosa e poi ‘essere’, per esempio, un uomo o un bambino. “Sono un avvocato”, “ Sono un medico” sentivo dire. Strano, ma ho smesso di chiedermelo. Dovevo iniziare a pensare al mio posto nel mondo.

Ok ma come trovarlo?

Per fortuna non ci hanno lasciati soli e hanno scritto un manuale. Sono stati così bravi che lo potevi trovare ovunque. In TV, nei film, sui giornali, in famiglia, al bar, tra gli amici e soprattutto, da quando esiste, online.

‘Un posto nel mondo, secolo XXI’ — istruzioni per l’uso:

  1. Trovare nel mondo valori profondi in cui credere e dimostrare quanto siano più giusti di altri, anche se simili.
  2. Sapere cose interessanti per sostenere conversazioni intelligenti allo scopo di competere con esemplari dello stesso genere e flirtare con quelli di genere opposto. Musica, arte, cultura, società, storia, politica, sport, economia, sociologia, psicologia, innovazione, cucina, il minimo delle materie da padroneggiare.
  3. Viaggiare il più possibile in posti possibilmente poco conosciuti o lontani.
  4. Fare esperienze uniche, originali ed esclusive. Dal 2008, postarle sui social.
  5. Conoscere gente giusta e avere amici cool che condividano i valori di cui al punto 1. Escludere gli altri.
  6. Trovare un lavoro figo, socialmente riconosciuto e pagato ovviamente il più possibile, anche quando è già pagato tanto.
  7. Diventare il più possibile noto. Dal 2012, contare i follower su Instagram.
  8. Possedere molte cose costose e/o esclusive.
  9. Avere un fisico bestiale e misure preferibilmente abbondanti.
  10. Essere un amante prestante ma sensibile.
  11. Avere una relazione solida e sicura che duri tutta la vita.
  12. Fare una famiglia felice tra i 30 e i 35 anni. Non oltre.
  13. Scegliere almeno 3 punti di cui sopra e farne la propria ragione di vita.

Sostenevo, davanti agli altri, come diverse di queste istruzioni fossero assurde. Ammetto però che, anche se lo nascondevo bene, alcune di esse avrebbero avuto una sottile ma potente influenza nella mia ricerca.

Quindi ho studiato, ho letto libri, ho visto film, ho scritto, ho suonato, ho creato, ho fatto esperienze, ho vissuto all’estero, ho trovato un lavoro, ho cambiato lavoro, ne ho creato uno, ho discusso, ho avuto ragione, ho avuto torto, ho giudicato, sono stato giudicato, ho dimostrato a me stesso, ho dimostrato agli altri, ho scopato, ho fatto l’amore, ho amato, ho odiato, ho litigato, ho viaggiato in posti vicini e lontani, ho frequentato persone e tanto altro.

Senza accorgermene, ero diventato pesante. Così pesante che stavo facendo un grosso solco in tondo. Il mio posto nel mondo era li vicinissimo, lo sentivo, ma, nonostante tutto il mio darmi da fare, non arrivava mai come credevo avrebbe dovuto essere e mi ritrovavo sempre al punto iniziale, solo un po’ più in basso.

Più ritenevo di sapere ciò di cui avevo bisogno, più questo solco diventava profondo. E più diventava profondo, più scorgere altro intorno diventava difficile, impedito dalle pareti che, senza rendermene conto, si stavano costruendo.

Il mio solco però, bisogna dirlo, era proprio un bel solco. Me l’ero acchittato alla grande, con tanta cura e fatica. Ci stavo comodo e mi ci sentivo a mio agio. E poi era mio. Pieno di me, dei miei valori, delle mie certezze, dei miei desideri.

Era onestamente più bello della maggior parte dei solchi intorno a me. Ne andavo abbastanza fiero. Altri invece li scorgevo da lontano, erano dietro uno schermo e mi sembravano fighissimi. C’è sempre di meglio, pensavo.

Ogni tanto alzavo lo sguardo da quelle pareti e guardavo le stelle. Piccole ma allo stesso tempo giganti. Chissà come fanno a stare lì per aria leggere. Ma lo riabbassavo subito per la paura di perdere di vista il mio posto nel mondo, fumoso come a luglio il vapore d’asfalto. Grazie Ungaretti.

Dopo circa 30 anni di giro tondo cominciavo ad essere stanco e sempre più pesante. Facevo fatica a muovermi. Il mio posto nel mondo non lo avevo ancora trovato ma nel mio solco non stavo poi così male.

Non ero sicuramente quello messo peggio. Intorno a me, per quello che vedevo, molti stavano così. Nei loro solchi, stanchi dal loro girare in tondo e appesantiti. Dalle loro opinioni, dalle loro paure e dalle loro sicurezze.

Molti, come me, si accontentavano. Altri ti urlavano dal solco di averlo trovato, il posto nel mondo. Se, curioso, chiedevi com’era, ti farneticavano risposte a volte arroganti e dogmatiche, a volte categoriche. Chissà se era vero o se la paura di non averlo ancora trovato li portava a illudersi di averlo fatto, mi chiedevo.

Il mondo rimasto di sopra non mi interessava più tanto, era abitato solo da bambini e animali. Per loro il posto nel mondo non era importante.

Succedeva anche che ogni tanto scorgessi, in alto sopra la mia buca, delle persone passare. Sembravano volare per quanto ero finito in basso. Le sentivo correre, tra un solco e l’altro, per il prato che io non riuscivo più a vedere. Ridevano e pensavo a quanto superficiali, a volte, le persone possano essere. Perdere tempo così con un posto nel mondo da trovare.

Mi ero abituato. A forza di girare in tondo il solco era diventato la mia vita. Stavo lavorando sui punti 11 e 12 delle istruzioni e mi stavo dando egregiamente da fare. La pesantezza non la percepivo più così tanto. In realtà, me ne ricordavo solo quelle poche volte che, improvvisamente, mi sentivo leggero. Succedeva in qualche raro momento creativo, in un pranzo al mare di primavera, quando senti di nuovo la sabbia sotto i piedi scalzi, o in una coccola tra le coperte dopo una giornata dimmerda.

Poi, praticamente tutti i weekend, mi dedicavo alla LMI — Leggerezza momentaneamente indotta. Pregavo il dio dei Gin Tonic e praticavo l’antica arte delle 4:20. Leggerezza garantita fino alla mattina dopo, ma tanto il venerdì successivo sarebbe arrivato presto.

Tutto procedeva tranquillo e anestetizzato.

Un giorno poi, d’improvviso, successe. La faccio breve. Lei mi lasciò, da un giorno all’altro. Si lo so, succede a tutti. Ma quella volta il mio cuore, rompendosi, fece un rumore talmente forte che le pareti del mio solco crollarono di botto. Solo macerie intorno a me.

Altre volte, per varie ragioni, era successo. Piccoli cedimenti che, con un colpo alla botte e uno al cerchio, ero sempre riuscito a tenere in piedi. Questa volta era diverso. Mi era crollato tutto.

Agli altri, allertati dal rumore, dicevo che non era successo niente. Tutto sotto controllo. Avrei rimesso tutto a posto.La verità è che ero frastornato e traboccante di un dolore nuovo.

Nevroticamente cominciai subito a scavare un altro solco, tra i frantumi della mia vita. Giravo confuso su me stesso nella speranza di ricavare un altro piccolo spazio dove potermi sentirmi di nuovo protetto forse.

Non aveva senso. Ero troppo poco lucido e stanco. Nel profondo sapevo che era inutile pretendere di capire ora. E così, per la prima volta dopo tanto tempo, decisi di fermarmi a respirare, sdraiato nella polvere del mio solco, a guardare le stelle.

Per la prima volta dopo tanto tempo, stavo lasciando dello spazio. Alla vita di accadere, senza pretendere nulla. Al silenzio di parlare.

Rimasi così un pò, non so con precisione quanto.

Poi d’improvviso lassù in alto, notai due occhi vispi che mi osservavano. Forse era uno di quelli che ogni tanto intravedevo correre nel mondo di sopra. Mi guardava sdraiato sul fondo del mio solco. Gli chiesi scocciato chi fosse. Mi rispose che aveva poca importanza e che era contento che finalmente l’avessi notato.

Fece una breve pausa senza smettere di guardarmi ed esclamò che finalmente era successo! Cosa, chiesi. Finalmente è crollato. Raccontami come è successo, rispose.

Intendeva il solco? Come cazzo si permetteva e da quanto tempo stava li ad osservarmi? Senza rendermene conto però cominciai a raccontargli tutto quanto. Avevo bisogno di sfogarmi. Non era possibile che lei mi avesse lasciato così, la vita era ingiusta e non meritavo quella fine dopo tutti quegli sforzi. Che importanza aveva il mio posto nel mondo senza di lei e che cosa avrei fatto ora senza nemmeno il mio solco a proteggermi. Non potevo accettarlo. Perché succedono queste cose?! Mormorai.

Mi guardò dolcemente con l’aria di chi aveva compreso perfettamente e disse che queste cose servivano a far crollare il solco. Che i solchi prima o poi, per un motivo o per un altro, sono destinati a crollare, tutti quanti, anche i più solidi. Non siamo fatti per i solchi ma per i prati, sorrise. É una fortuna che ti sia successo. Sei un senza-solco ora.

Io non volevo essere né sapere cosa fosse un senza-solco. Che cazzo stava dicendo. La faceva facile. Non aveva idea di quanto fossero importanti lei e il mio solco. Chi sarei stato senza? Che cazzo ne sapeva lui, urlai.

Mi guardò calmo e rispose che un tempo anche lui stava in un bellissimo solco alla ricerca del posto nel mondo. Il suo poi si sgretolò in mille pezzi dopo una grave malattia.

E allora poi come aveva fatto, implorai disteso tra le macerie. Come era risalito se era malato? E lassù nei prati c’erano posti nel mondo da trovare? Avevo dimenticato com’erano i prati.

Quassù, il posto nel mondo come lo intendi ora, non ha più importanza ma devi prima risalire per ricordare, sorrise. Ancora sdraiato, mi accorsi di che buco profondo avevo scavato negli anni. Prima di tutto devi accorgerti che sei in un solco, disse come leggendomi i pensieri. E poi per risalire devi tornare leggero. Devi imparare a prenderti meno sul serio. La malattia mi ha reso leggero. Solo allora sono risalito, ma credimi non c’è bisogno di arrivare a tanto.

Come si diventa leggeri, domandai stremato. Sto messo male. Non posso fingermi allegro ora. Come faccio, insistei. Leggerezza non è fare il simpatico, rispose. È essere stanchi abbastanza da non trattenere più i pesi della vita. Per quanto la vita possa essere stronza, è come reagisci a ciò che ti accade che conta. Se non ci fai attenzione i pesi aumenteranno, al contrario, puoi iniziare a liberartene. Per prima cosa accorgiti che sei pesante ora.

D’improvviso percepì quanto ero diventato pesante. Pesantissimo. Non riuscivo quasi più a muovermi.

Vedi, disse, la maggior parte delle persone oggi diventa solo vecchia, non grande. Grande diventi se crescendo torni a giocare. Il primo passo per farlo è rendersi conto di essere un sasso. Quasi tutti sono come sassi, mi spiegò. Se tirati in un torrente vanno a fondo pesanti, ansiosi di trovare il loro posto tra gli altri sassi. Se si spostano, lo fanno di poco, urtandosi l’un l’altro e facendo tanto rumore. Bisogna imparare ad essere foglia. Bisogna saper fluire senza la certezza di sapere dove si verrà trasportati. Bisogna tornare a considerare. Oggi invece desideriamo solo e male.

Considerare. Desiderare male. Che stava dicendo? Io desideravo solo riavere lei e il mio solco indietro e smetterla di soffrire.

C’è bisogno di leggerezza per non andare a fondo, esclamò guardandomi sorridente. Per diventare veramente leggero, devi iniziare a fare attenzione alle tue paure così come alle tue certezze. Sono loro che ti appesantiscono. Considerale, finché non le amerai. Non sminuirle, non darle per scontate e non fuggire dal loro. Chiedono di essere considerate.

Anche le certezze? Si, rispose. Spesso non sono altro che le nostre stesse paure che furbe si travestono per non essere riconosciute dagli altri e da noi stessi. Meglio chiamarle corazze. Che sono pesanti per definizione, disse.

Non ci avevo mai pensato ad essere sincero. Io ero solo certo di essere abbastanza intelligente, un ragazzo di cultura medio-alta che si riteneva un pò ribelle. Avevo sempre cercato di distinguermi, di non seguire le strade spianate. Non tolleravo la mediocrità, lo status quo, il fare le cose perché “è così e basta”. Non sopportavo l’arroganza e l’ottusità. Di questo ero certo. Non erano paure, erano virtù, gli dissi.

Mi guardò sornione e chiese. Mettiamo che conosci qualcuno che vota per esempio un Salvini, che fai? Ovviamente lo compatisco e cerco di fargli capire quanto è stupido farlo, risposi convinto e quasi un pò offeso dalla domanda.

Vedi, quando non accogli qualcuno che non accoglie non siete forse allo stesso livello, mi chiese. Non è lo stesso gioco, solo in due squadre diverse? Tu credi di aver ragione e lui anche, mentre non vedete che entrambi state giudicando ed escludendo. State portando la stessa cosa nel mondo.

Ci vuole coraggio a dire che sono allo stesso livello di Salvini cazzo, urlai questa volta decisamente offeso.

Senza scomporsi, fece una breve pausa e continuò. Ci vuole coraggio a entrare dentro le paure, rispose. Ci vuole coraggio a togliersi le corazze, a mettersi in discussione e ad accorgersi di quella parte che è ombra dentro di noi da molto tempo e che ci guida di nascosto da noi stessi. Invece oggi ti fanno credere che il coraggio sia essere sicuri di se, avere un risposta certa per tutto e dire di non avere paura.

Le domande, in realtà, sono molto più importanti delle risposte certe.

Potrebbe essere che il vero ribelle sia colui che si ribella all’idea di sè, mi chiese. Potrebbe essere che ciò che siamo sia oltre quello che crediamo. Lo guardai perplesso. É una rivoluzione silenziosa quella di cui ti sto parlando, sorrise. Più potente di qualunque altra mai avvenuta. Avviene dentro, senza bisogno di urlare o dimostrare fuori.

Non mi lasciò nemmeno il tempo di ribattere che mi chiese quali problemi vedevo nel mondo. Risposi che era una domanda idiota. Siamo praticamente fottuti. Meglio chiedere cosa ancora di positivo rimaneva. Annuì. Il mondo è pieno di problemi. Piccoli, grandi ed enormi, disse. Riesci però a vedere che non si possono risolvere i problemi con la stessa moneta che li ha generati?

Aspetta spiegati meglio, domandai confuso.

Per questo è importante imparare a considerare, rispose. Sta emergendo una nuova coscienza che non combatte più nulla ma sa accogliere e integrare gli opposti. A partire da quelli che abbiamo dentro. È una rivoluzione gigantesca, la cui riuscita dipende da ogni singola persona su questo pianeta. Nessuno è più importante di altri. Ognuno di noi ne ha la responsabilità. Oggi serve questo con urgenza. Alleggerirsi per lasciare spazio alla vita. Lei sa meglio di noi come risolvere le cose.

Cominciavo ad innervosirmi. Forse perché non capivo bene cosa intendesse, o forse perché mi aveva appena dato del Salviniano. Questo se ne stava lassù elargendo massime sulla vita da pagina Facebook ruba-like. Non giudicare, conosci le tue paure, accetta te stesso. Chi si credeva di essere.

Intuendo la mia diffidenza mi spiegò calmo che screditare, deridere e appesantire parole che vengono da lontano è un modo, tra gli altri, per evitare che le persone possano intuirle profondamente. Diventerebbero dei senza-solco in un attimo, rise. E rifletti se preferisci leggere “dei” come una preposizione articolata o un sostantivo.

La verità un tempo era “scoperta”, mi spiegò. Oggi è diventata, come ogni cosa, duale. Ridotta a vero o falso. Come un quiz. Ognuno nel proprio solco a tifare la propria squadra e a inveire contro l’altra. Ognuno a voler aver ragione per forza.

Credere ad A o B è diventato ciò che sei e, probabilmente, ciò che fai.

La differenza tra le cose che credi e quelle che cominci a conoscere invece è abissale, disse. La conoscenza riguarda il cuore, non la testa. Non è certa. Ha a che fare con l’intuizione. Oggi non facciamo più caso all’intuizione. Il sapere invece pesa le cose e diventa peso lui stesso, concluse.

La verità, lo ammetto, era che questa volta quelle parole risuonavano in me in modo diverso, nuovo, più profondo. Mentre quegli occhi lassù brillavano, loro scendevano quaggiù e cominciavano a scaldare il buco freddo in cui mi trovavo. O forse non erano nemmeno le parole ma ciò che in esse veniva trasportato.

Disse di non sforzarmi a capire ma lasciare che le parole risuonassero quanto dovevano. Improvvisamente, quando sarebbe stato il momento, avrei potuto ritrovarmi a intuire in una maniera nuova, precisò. Questione di un click, disse.

Cominciavano a frullarmi in testa mille domande. Le paure, quali erano le mie? Ci avevo mai fatto caso davvero o mi giravo dall’altra parte perché non volevo vedere? Che cosa avrei scoperto se avessi cominciato a farci caso? E ancora non capivo questi ‘considerare’ e ‘desiderare male’.

Ancora una volta sembrò leggermi i pensieri. La paura è mancanza di accoglienza, non saper accettare la realtà cosi com’è, nel bene e nel male, disse. Oggi molti hanno paura. E come lo sai, ribattei. Lo vedi dagli occhi. Non brillano più, disse.

Quando si ha paura non si può amare. Nessuno. Soprattutto se stessi. Considerare invece è saper accogliere. Soprattutto se stessi. La paura è l’antitesi dell’amore. Accogliere invece è la sua condizione necessaria.

Quando riusciamo profondamente ad accoglierci scopriamo il potere dell’abbandonarci, del non dirci più cosa o chi dobbiamo diventare per riuscire finalmente a volerci bene. Riemerge una sorta di potente fiducia nella vita, che era sempre stata dentro di noi. Sepolta sotto tutto quello che credevamo di (non) valere. Ed è in quel momento che tante coincidenze cominciano ad accadere.

Era tanto quello che diceva. Difficile da digerire tutto insieme. Ma ero sempre più curioso. Perché dici che desideriamo male, incalzai.

ll desiderio è una forza potente dentro ognuno di noi, ricominciò. Il desiderio crea. É una forza complementare e opposta a ‘considerare’. Uno è creazione attiva, l’altra è accettazione che diventa accoglienza. Va fatta attenzione a quale equilibrio regola questi due opposti complementari. Se consideri male e non sai accogliere, desidererai male, creando resistenza e ostinazione. Impiegherai tutta la tua energia per resistere con grande sforzo alla vita invece di usarla per fluire con lei e contribuire con qualcosa di bello. Oggi desideriamo male. Costruiamo muri con i desideri. Desiderare dovrebbe essere la fonte dei doni migliori che possiamo offrire al mondo. Quando desideriamo bene siamo meravigliosamente creativi.

Aspetta, non ho capito. Rispiega, domandai ancora.

Il desiderio, se impari a usarlo bene, è la forza motrice della creatività, mi spiegò. Essere creativi non significa solo fare l’artista, il musicista o il designer. Essere creativi è amare ciò che si fa e farlo con tutto sé stessi, senza essere appesantiti da paure o giudizi. Così non puoi che fare bene, silenziosamente, a te e al mondo, qualsiasi cosa tu faccia, perché ci stai mettendo amore. E la vita lo riconoscerà.

Era difficile seguirlo ma sentivo che aveva intuito e conosciuto qualcosa di cui avevo forse solo sentito parlare e, per di più, non ci avevo nemmeno fatto mai troppo caso. Quello sguardo emanava leggerezza, vera.

Mi fissò profondamente negli occhi. Che mi mise a disagio. Non siamo abituati a tanta profondità. Il lavoro di un senza-solco ora è vedere, vedere da sè, sussurrò. Non credere a delle misere parole. Inizia ad accorgerti di tutti i condizionamenti e sorridi, non fare alcuno sforzo per superarli o combatterli. Semplicemente considerali, devi volergli bene. Il resto lo intuirai, concluse.

Mi guardai attorno, disteso sul fondo del mio solco distrutto. Avevo 33 anni. Vedere da sè diceva. Io vedevo solo macerie e polvere intorno a me. Poi guardai meglio e vidi un debole raggio di sole entrare da una crepa.

Ero triste ma un sorriso stava da solo trovando spazio tra le mie guance. Vidi anche quello.

Click.

Rialzai lo sguardo, lui non c’era più.

Dimmi solo come ti chiami, urlai.

Sergio, udì da lontano, ma su al prato mi chiamano Sè.

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